Con la sentenza n. 220/2013, depositata il 19 luglio 2013 (e disponibile all’indirizzo www.cortecostituzionale.it), la Corte costituzionale italiana ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di gran parte delle disposizioni – contenute in due decreti-legge, emanati e convertiti fra il 2011 e il 2012 – in cui si era sostanziata la c.d. “riforma delle Province” promossa dal Governo Monti. Le disposizioni colpite dalla dichiarazione d’illegittimità sono riconducibili, dal punto di vista contenutistico, a tre fondamentali complessi normativi: la ridefinizione degli organi provinciali; la modificazione e la drastica compressione delle funzioni delle Province; il “riordino” delle circoscrizioni provinciali. Si trattava di un tentativo riformatore di ampio respiro, che aveva fatto direttamente seguito a quello – non coronato da successo – dell’estate 2011, tradottosi nell’art. 15 del d.l. n. 138/2011 e in un d.d.l. costituzionale successivamente adottato dal Governo. Sia il tentativo del Governo Berlusconi IV sia quello del Governo Monti sono stati motivati, in larga parte, invocando l’emergenza economica e la preoccupante condizione delle finanze pubbliche (Vandelli 2013, 92).
In particolare, il legislatore del 2011 ha modificato la normativa in tema di funzioni delle Province – limitandole al solo indirizzo e coordinamento dell’attività dei Comuni ubicati sul loro territorio – e in tema di organi provinciali, eliminando la Giunta e prevedendo un Consiglio composto di membri eletti dagli organi elettivi dei Comuni e un Presidente della Provincia eletto dal Consiglio provinciale così modificato (art. 23, commi da 14 a 20, del d.l. n. 201/2011, c.d. Salva Italia, poi convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214/2011). Queste modificazioni dei profili strutturali e funzionali dell’amministrazione provinciale miravano a trasformare le Province in enti di secondo grado, “organismi di emanazione dei comuni più che enti esponenziali diretti delle collettività stanziate sul territorio” (Vesperini 2012, 273). Quanto all’art. 17 del d.l. n. 95/2012 (“decreto spending review”, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 135/2012), esso disponeva il c.d. riordino delle Province – “sulla base di requisiti minimi, da individuarsi nella dimensione territoriale e nella popolazione residente in ciascuna provincia” – e ripristinava un nucleo essenziale di funzioni provinciali “ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione”. La procedura di riordino si sarebbe basata su ipotesi elaborate dai Consigli delle autonomie locali istituiti in ciascuna Regione, su proposte regionali e su un disegno di legge d’iniziativa governativa. Oltre a ciò, l’art. 18 del medesimo decreto-legge disponeva l’istituzione di Città metropolitane nel territorio di alcune Province, delle quali contestualmente si prevedeva la soppressione.
Un’ipotesi di riordino delle Province nelle Regioni a statuto ordinario è stata trasfusa nel d.l. n. 188/2012, che però non è stato convertito in legge: vi si prevedeva il passaggio, limitatamente alle Regioni a statuto ordinario, da 86 Province a 51 fra Province e Città metropolitane. Poco dopo l’art. 1, comma 115, della legge n. 228/2012 ha sospeso per un anno l’attuazione della “riforma delle Province”, rinviandone i termini applicativi al 31 dicembre 2013.
Le norme contenute nei decreti-legge nn. 201/2011 e 95/2012, in effetti, sono state oggetto di dure contestazioni da parte sia del sistema delle autonomie, sia della dottrina. In particolare – limitandoci a citare le doglianze proposte da numerose Regioni nei loro ricorsi in via principale dinanzi alla Corte costituzionale – è stato per lo più ravvisato un contrasto con gli artt. 5 e 114 Cost.: “l’art. 23 del d.l. n. 201 del 2011 trasforma completamente la Provincia, da ente costituzionalmente autonomo ad ente di secondo livello, con mere funzioni di coordinamento degli enti comunali, in quanto tale privato dell’attività di gestione amministrativa e della maggior parte delle originarie funzioni istituzionali”. Ciò avrebbe provocato una grave deminutio della posizione delle Province quali enti costitutivi della Repubblica e uno stravolgimento del nesso fra principio autonomistico e principio democratico (cfr. le sentenze nn. 96/1968 e 238/2007). Non meno criticata è stata la scansione della procedura di riordino, per i suoi caratteri fortemente unilaterali e l’assenza di un formale coinvolgimento dei Comuni interessati, in difformità con la disciplina dettata dall’art. 133, comma 1, Cost. in punto di modificazione delle circoscrizioni provinciali e d’istituzione di nuove Province: tale disposizione costituzionale, infatti, prevede che la necessaria legge statale sia preceduta da un’iniziativa dei Comuni e da una consultazione della Regione interessata. A proposito di questa obiezione si deve segnalare che in dottrina si registrano opinioni di vario segno circa la possibilità di configurare, accanto alle puntuali ipotesi d’istituzione di nuove Province e di modificazione di quelle esistenti, disciplinata dall’art. 133 Cost., un potere di riordino, a carattere generale e riguardante “l’intero territorio nazionale [e] tutte le Province, alle quali [si] impone di rispondere ai requisiti di dimensionamento ottimale per l’espletamento delle funzioni di area vasta (in senso favorevole, Onida 2012, 9 s.; contra Rotelli 1990, 210).
Solo alcune fra le Regioni ricorrenti hanno invece lamentato un contrasto delle disposizioni impugnate con l’art. 77 Cost.: in particolare, la natura strutturale della “riforma delle Province”, riconosciuta dallo stesso Governo, avrebbe di per sé escluso la sussistenza dei requisiti di straordinarietà e di urgenza. Inoltre, l’art. 15 della legge n. 400/1988 (legge sull’organizzazione della Presidenza del Consiglio) ha espressamente sottratto alla decretazione d’urgenza gli oggetti menzionati al quarto comma dell’art. 72 Cost., fra i quali rientrano anche le materie costituzionale ed elettorale. Per quanto riguarda la procedura di riordino disciplinata dal d.l. n. 95/2012, il ricorso al decreto-legge si sarebbe posto gravemente in contrasto col potere d’iniziativa “dal basso” che dovrebbe muovere le modificazioni delle circoscrizioni provinciali, come si ricaverebbe a contrario da quella giurisprudenza costituzionale che ha invece ritenuto ammissibile l’utilizzazione della delega legislativa (sentenza n. 347/1994; in tal senso, espressamente, Ferioli 2006, 2552).
Tralasciando altre questioni, forse di minor rilievo per i fini di questa breve presentazione, la Corte ha largamente accolto le richieste delle ricorrenti, colpendo con la declaratoria d’illegittimità l’art. 23, commi da 14 a 20, del d.l. n. 201/2011 e gli artt. 17 e 18 del d.l. n. 95/2012.
Nell’economia interna della sentenza n. 220/2013 l’aspetto di maggior interesse, a fronte delle articolate censure svolte dalle Regioni ricorrenti a proposito dell’illegittimità delle disposizioni impugnate, risiede nell’uso che la Corte ha fatto dei parametri di legittimità costituzionale da esse invocati. Il giudice delle leggi, in particolare, ha dato priorità all’art. 77 della Costituzione, che ha finito, in ragione della sua priorità logica, con l’assorbire tutti gli altri parametri.
In buona sostanza, perciò, le disposizioni impugnate – contenenti “la trasformazione … dell’intera disciplina ordinamentale di un ente locale territoriale, previsto e garantito dalla Costituzione” – sono colpite dalla declaratoria d’illegittimità poiché sono state immesse nell’ordinamento ricorrendo alla decretazione d’urgenza. A fronte del carattere organico delle disposizioni contenute all’art. 23 del d.l. n. 201/2011 e all’art. 17 del d.l. n. 95/2012, che danno l’avvio, dopo un lungo dibattito politico e dottrinale, a un complesso processo di riallocazione di funzioni e di riordino degli enti, il decreto-legge deve contenere misure d’immediata applicazione (art. 15, comma 3, della già citata legge n. 400/1988): esso risulta perciò palesemente inadeguato, in ragione della sua “natura intrinseca”, “a realizzare una riforma organica e di sistema, che non solo trova le sue motivazioni in esigenze manifestatesi da non breve periodo, ma richiede processi attuativi necessariamente protratti nel tempo, tali da poter rendere indispensabili sospensioni di efficacia, rinvii e sistematizzazioni progressive, che mal si conciliano con l’immediatezza di effetti connaturata al decreto-legge”.
A fronte dell’ampio ventaglio di censure proposte dalle ricorrenti, nella sentenza la Corte ha deliberatamente mantenuto impregiudicate diverse questioni: così, in primo luogo, se “sull’ordinamento degli enti locali si possa intervenire solo con legge costituzionale – indispensabile solo se si intenda sopprimere uno degli enti previsti dall’art. 114 Cost., o comunque si voglia togliere allo stesso la garanzia costituzionale”. Più limitatamente, secondo il giudice delle leggi, non è utilizzabile un atto come il decreto-legge “per introdurre nuovi assetti ordinamentali che superino i limiti di misure meramente organizzative”. E ancora: la difesa dello Stato ha sostenuto che il riordino complessivo delle Province italiane non rientrerebbe nell’ambito applicativo del primo comma dell’art. 133 della Costituzione. Anche in questo caso la Corte – che pure ha sottolineato il pregio costituzionale delle “iniziative nascenti dalle popolazioni interessate, tramite i loro più immediati enti esponenziali, i Comuni” e l’incompatibilità fra decreto-legge e procedura di cui all’art. 133 Cost. – non ha adottato un atteggiamento di netta chiusura nei confronti di questa tesi dell’avvocatura generale dello Stato. Essa si è limitata a criticare, ancora una volta, la scelta dello strumento del decreto-legge per dare concreta sostanza a quell’ipotesi: “A prescindere da ogni valutazione sulla fondatezza nel merito di tale argomentazione con riferimento alla legge ordinaria, occorre ribadire che a fortiori si deve ritenere non utilizzabile lo strumento del decreto-legge quando si intende procedere ad un riordino circoscrizionale globale, giacché all’incompatibilità dell’atto normativo urgente con la prescritta iniziativa dei Comuni si aggiunge la natura di riforma ordinamentale delle disposizioni censurate, che introducono una disciplina a carattere generale dei criteri che devono presiedere alla formazione delle Province”. Quanto all’argomento dell’emergenza finanziaria, è la stessa complessità del procedimento di riforma disciplinato dai due decreti-legge censurati, in questo caso, a rendere indeterminati e indeterminabili gli sperati risparmi di spesa.
La risoluzione delle questioni di legittimità è stata dunque impostata dalla Corte costituzionale in termini di compatibilità, più che dei contenuti della “riforma”, dello strumento normativo del decreto-legge con le disposizioni – artt. 117, comma 2, lettera p, e 133, comma 1, Cost. – che disciplinano peculiari modalità e procedure per incidere sull’ordinamento degli enti locali o sulla conformazione territoriale dei singoli enti.
La Corte è intervenuta con durezza nei confronti della scelta del legislatore di provvedere per mezzo dello strumento del decreto-legge; molto più possibilista è apparsa invece la sua posizione rispetto agli aspetti critici – del resto già censurati da più parti – della “riforma delle Province”. Come si può spiegare quest’apparente sfasatura? Una parte della dottrina, prendendo le mosse dall’esame di alcune sentenze degli ultimi anni (fra le più recenti, oltre alla n. 220/2013, si possono citare le sentenze nn. 22/2012 e 219/2013), ha studiato il nesso fra il ruolo delle Regioni nei giudizi in via principale davanti alla Corte costituzionale e l’atteggiamento della Corte stessa nei confronti delle condizioni di caos in cui versa il sistema normativo dello Stato centrale (Rossi 2012; Lamarque 2012). Secondo un consolidato orientamento della Corte, nel giudizio in via principale le Regioni, nel momento in cui impugnano una legge, possono invocare soltanto parametri di legittimità attinenti al riparto di competenze fra esse e lo Stato. Alle Regioni è consentito far valere altri parametri – come, nel nostro caso, l’art. 77 Cost. – soltanto se questi determinano una compromissione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite, oppure ridondano sul riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni: si parla perciò di test della ridondanza. Alla luce della giurisprudenza costituzionale, il significato del canone della ridondanza non appare del tutto chiaro né univoco. La dottrina ritiene però ch’esso possa essere utilizzato, in taluni casi, al fine di dare una risposta a due convergenti esigenze: da un lato, quella di porre un argine ad alcuni tratti degeneri dell’attività normativa statale; dall’altro, quella di definire con sufficiente precisione i rapporti tra Stato e Regioni e la delimitazione delle rispettive sfere di competenza legislativa (Rossi 2011, 188). Negli ultimi anni, perciò, allorquando le Regioni hanno lamentato la violazione di parametri relativi al sistema delle fonti – è il caso, in primis, degli artt. 76 e 77 Cost. – la Corte è sovente parsa adoperare il test della ridondanza in senso complessivamente favorevole ad esse.
Con riguardo alla decretazione d’urgenza, questo orientamento della Corte si è potuto saldare con gli interessanti esiti della giurisprudenza recente in tema di non manifesta insussistenza dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza, presupposto per l’emanazione dell’atto (sentenze nn. 171/2007 e 128/2008), e di omogeneità del decreto-legge, da mantenersi anche in sede di conversione (sentenza n. 22/2012). Con la sentenza n. 220/2013 la Corte ha aggiunto un ulteriore, nuovo tassello a questa ricostruzione: ragionando su “ciò che deve ritenersi intrinseco alla natura stessa del decreto-legge”, ha iniziato a prendere posizione sulla prassi, accresciutasi esponenzialmente nell’ultimo decennio, di adoperare il decreto-legge come rivestimento formale dell’indirizzo politico governativo e dei principali interventi di riforma. Si deve leggere in questo senso, perciò, la valorizzazione della legge n. 400/1988 che “pur non avendo, sul piano formale, rango costituzionale”, svolge e puntualizza esigenze già immanenti all’art. 77 Cost.
Il “seguito” della decisione della Corte costituzionale pare confermare l’impressione che il giudice delle leggi mirasse non tanto a stigmatizzare il complesso percorso di riforma del sistema degli enti locali, quanto a invitare il Governo a dare una forma più razionale – in questa e in altre evenienze – all’attività di produzione normativa dello Stato. Così, dopo l’annuncio del dispositivo della sentenza il Governo ha modulato la propria risposta in due direzioni. In primo luogo, è stato presentato un disegno di legge costituzionale che prevede l’abolizione tout court dell’ente Provincia, sopprimendo i riferimenti contenuti agli artt. 114, 117, 118, 119, 120, 132 e 133 Cost. Si prevede inoltre che le modalità di esercizio delle funzioni (fino ad ora) provinciali siano individuate dallo Stato e dalle Regioni, nell’ambito delle rispettive competenze, “sulla base di criteri e requisiti generali definiti con legge dello Stato” (art. 3 del d.d.l. costituzionale). In secondo luogo, è stato presentato un disegno di legge, rivolto a procedere al riordino delle funzioni delle Province in attesa che sia approvato il predetto d.d.l. costituzionale. Questo d.d.l. riprende in buona parte i contenuti dei d.l. nn. 201/2011 e 95/2012, e in particolare: la trasformazione delle Province in enti di secondo livello, i cui organi sono composti di Sindaci e Presidenti delle Unioni di Comuni. Per quanto riguarda le funzioni, si prevede che spettino alle Province la gestione delle strade provinciali e la pianificazione in materia di territorio, ambiente, trasporto e rete scolastica. Le altre funzioni attualmente svolte dalle Province, invece, saranno assegnate prevalentemente ai Comuni. Poiché la Corte costituzionale gli ha lanciato una sorta di larvato monito a proposito della questione del “riordino” in questa occasione il Governo ha preferito rinunciare a varare un ulteriore percorso di riduzione del numero delle Province e attendere la modificazione delle disposizioni del Titolo V della Parte II della Costituzione e la conseguente soppressione dell’ente.
Nota bibliografica essenziale
Sugli interventi volti a ridefinire l’assetto e le funzioni delle Province nel corso della XVI legislatura: C. Napoli, Il livello provinciale nella legislazione “anticrisi” del Governo Monti, in federalismi.it, 7 novembre 2012; G. Vesperini, Le nuove province, in Giorn. dir. amm., n. 3/2012, 272-277; L. Vandelli, La Provincia italiana nel cambiamento: sulla legittimità di forme ad elezione indiretta, in Revista catalana de dret públic, n. 46, 2013, 90-103. Sugli interventi giurisprudenziali con cui, negli ultimi anni, la Corte costituzionale ha istituito un nesso fra canone della ridondanza e valori costituzionali attinenti al sistema delle fonti: E. Rossi, Parametro e oggetto nel giudizio in via principale: riflessi processuali della caotica produzione normativa statale e possibili rimedi, in I ricorsi in via principale, Milano, Giuffrè, 2011, 129-190; id., Il fine meritevole giustifica l’utilizzo elastico dei mezzi: la Corte e la “ridondanza”, in Giur. cost., n. 1/2012, 298-305; E. Lamarque, I profili processuali. Ricorsi regionali e violazione delle norme costituzionali sulle fonti del diritto, in Giur. it., n. 12/2012, 2487-2492. Sulla procedura di cui all’art. 133, comma 1, Cost.: E. Rotelli, Articolo 133, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, A. Pizzorusso, Bologna-Roma, Zanichelli-Foro italiano, 1990, 204-212; E. Ferioli, Articolo 133, in Commentario alla Costituzione, a cura di. R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Torino, Utet, 2006, 2548-2557; V. Onida, Parere sui profili di legittimità costituzionale dell’art. 17 del d.l. n. 95 del 2012, convertito in legge n. 135 del 2012, in tema di riordino delle province e delle loro funzioni, pubblicato in federalismi.it.
Giacomo Delledonne
Allievo perfezionando in diritto costituzionale, Scuola superiore “Sant’Anna” di Pisa