Brevi note sui lavori e sulla Relazione finale della Commissione sulla riforme costituzionali nominata dal governo Letta – Marco Olivetti

1. I risultati delle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio 2013 hanno aperto una nuova fase del dibattito italiano sulla riforma delle istituzioni politiche. Tale dibattito ha ormai una storia trentennale e concerne temi di rilievo costituzionale primario come la forma di governo, la legge elettorale, il bicameralismo ed il sistema delle autonomie territoriali.

Il risultato delle elezioni politiche del 2013 ha riaperto tale dibattito (che era rimasto sopito durante la XVI legislatura, dal 2008 al 2013, salvo che nell’ultimo anno di essa), soprattutto a causa della situazione di paralisi politica nella quale le istituzioni italiane si sono trovate a causa dell’elezione di un sia pur atipico hung parliament. Le elezioni di febbraio, infatti, pur avendo consegnato al Partito Democratico e ai suoi alleati di centro-sinistra la maggioranza assoluta dei seggi nella nuova Camera dei deputati, non hanno prodotto alcuna maggioranza nel Senato. La regola costituzionale secondo cui in Italia un governo deve ottenere la fiducia di entrambe le Camere (art. 94 Cost.) – una regola quasi unica in Europa, ove essa trova un termine di paragone solo nella Costituzione della Romania del 1991 – ha reso molto complesso formare il nuovo governo, anche per la contestuale scadenza del mandato del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Solo dopo la rielezione di quest’ultimo (20 aprile) si è potuto formare un nuovo governo (28 aprile), basato su una “grande coalizione” tra il Partito Democratico, il Popolo delle libertà e Scelta Civica (rispettivamente la prima, la terza e la quarta forza politica del Paese), e guidato dall’ex vice-segretario del Partito Democratico, Enrico Letta.

Ma sia la rielezione del Presidente Napolitano, sia la formazione del governo Letta sono avvenute sulla base di un impegno delle principali forze politiche a sostenere un programma di riforme costituzionali ed elettorali.

2. A questo fine, il governo ha presentato al Parlamento un progetto di legge costituzionale volto a prevedere una procedura di revisione costituzionale ad hoc (Atto Senato n. 813 della XVII legislatura). Si tratta di un progetto di revisione costituzionale volto a regolare la specifica procedura di revisione da utilizzare nel caso in esame, secondo un modulo procedimentale cui si è già fatto ricorso (per ben due volte) negli anni novanta (legge cost. n. 1/1993 e n. 1/1997). Rispetto alla procedura di revisione costituzionale prevista in generale dall’art. 138 Cost., il progetto di legge costituzionale n. 813 (sinora approvato dalle due Camere in prima deliberazione e dal Senato in seconda deliberazione) unificherebbe la fase istruttoria in un Comitato Parlamentare per le riforme costituzionali che sarebbe composto da 20 deputati e da 20 senatori; ridurrebbe da tre a due mesi l’intervallo fra la prima e la seconda deliberazione di ciascuna Camera nel procedimento ad hoc di revisione costituzionale; prevederebbe la possibilità di tenere un referendum confermativo nazionale al termine del percorso parlamentare di revisione, anche qualora la futura ed eventuale revisione della Costituzione fosse approvato a maggioranza dei due terzi; stabilirebbe, infine, che si terranno non un solo referendum confermativo, ma tanti referendum quanti saranno i temi omogenei su cui il Parlamento proporrà di modificare la Costituzione.

Mentre il procedimento per l’adozione del progetto di legge n. 813 era in corso, il governo Letta ha ritenuto di avviare una fase di studio e di proposta, affidandola ad una Commissione di 35 esperti (definiti pomposamente “i saggi” dalla stampa quotidiana italiana), affiancata da un comitato di redazione composto da 7 persone con qualificazioni analoghe a quelle dei membri della Commissione, che è stata nominata dal Presidente del Consiglio Letta il 4 giugno 2013. Essa era presieduta dal Ministro delle riforme costituzionali, lo storico Gaetano Quagliariello (senatore del Popolo delle Libertà) ed era composta in prevalenza da professori universitari di diritto costituzionale (alcuni dei quali erano anche ex ministri o ex giudici costituzionali), alcuni professori di altre discipline giuridiche, un economista, uno storico del diritto e alcuni scienziati della politica. La Commissione era relativamente diversificata al suo interno, sia dal punto di vista degli orientamenti culturali e politici, sia riguardo al genere (10 dei suoi componenti erano donne), sia riguardo alla provenienza geografica dei suoi componenti.

La Commissione – ricevuta dal Presidente della Repubblica il 6 giugno, subito dopo la sua nomina – si è insediata il 12 giugno, alla presenza del Presidente del Consiglio Letta. Nei mesi di giugno e luglio essa ha tenuto sette riunioni plenarie, dedicate rispettivamente al bicameralismo, al sistema delle autonomie territoriali, alla forma di governo ed alla legge elettorale. Dopo ogni seduta plenaria della Commissione, il Comitato di redazione ha sintetizzato i principali orientamenti emersi dai lavori collegiali. Il 15, 16 e 17 settembre la Commissione ha tenuto una conferenza conclusiva a Francavilla al Mare, al termine della quale si è proceduto al coordinamento formale della sua Relazione finale (alla quale sono annessi alcuni allegati e materiali di approfondimento). Il testo della Relazione – frutto di 110 ore di lavoro complessivo, prestato dai suoi componenti a titolo totalmente gratuito – è stato consegnato al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Presidente della Repubblica e ai Presidenti delle due Camere.

3. In queste pagine verranno brevemente esposti i contenuti della Relazione. E’ tuttavia necessario precisare quale finalità essa abbia perseguito e con quale metodo essa abbia lavorato.

La finalità non era infatti quella di formulare proposte specifiche e dettagliate e neppure di presentare un progetto organico di revisione della Costituzione italiana: questo compito resta riservato al Parlamento. Il mandato conferito alla Commissione era invece di evidenziare le possibili soluzioni alternative sui quattro grandi nodi sottoposti alla sua attenzione (forma di governo, legge elettorale, autonomie territoriali, bicameralismo), mettendo in luce vantaggi e svantaggi delle diverse soluzioni possibili. Anche per questo motivo, la Commissione ha discusso a lungo su ogni questione, ma non ha votato. Al suo interno il Comitato di redazione – presieduto dall’ex presidente della Camera dei deputati, Luciano Violante – ha svolto la funzione di catalizzatore e di “facilitatore” del consenso che emergeva sui vari temi e al tempo stesso delle varie alternative che si venivano delineando. Un metodo “consensuale”, dunque, ma al tempo stesso aperto a registrare i dissensi: un metodo possibile proprio in quanto la Commissione non doveva decidere, ma solo esprimere orientamenti e formulare ipotesi.

Un metodo non privo di rischi di manipolazione, che, però, è stato utilizzato con equilibrio: se nella Commissione non sono mancati dissensi anche profondi su temi specifici, il metodo di lavoro è stato condiviso da tutti i suoi componenti. Anche se due membri di essa (la prof.ssa Carlassare e la prof.ssa Urbinati) si sono dimessi nel corso dei lavori, ciò è avvenuto per ragioni politiche connesse a vicende esterne alla Commissione e non per questioni attinenti ai temi trattati o al metodo di lavoro.

4. Il tema che la Commissione ha esaminato per primo è stata la struttura del Parlamento italiano, il quale è composto da due Camere, entrambe elette a suffragio universale e diretto e collocate dalla Costituzione in posizione di assoluta parità: entrambe devono conferire la fiducia al governo (art. 94 Cost.); entrambe devono approvare una proposta o un disegno di legge perché esso diventi legge (art. 70 Cost.). In conseguenza di ciò, qualsiasi governo deve disporre di una maggioranza in entrambe le Camere. Questa regola non ha posto problemi particolari dal 1948 al 1994, quando erano adottati per l’elezione delle due Camere sistemi elettorali proporzionali pressoché puri. Ma dopo la riforma elettorale del 1993, che ha introdotto in Italia un sistema elettorale prevalentemente maggioritario (che è stato poi incisivamente modificato nel 2005, ma pur sempre mantenendo l’inserzione di elementi maggioritari accanto ad elementi proporzionalistici), il bicameralismo si è progressivamente rivelato disfunzionale: in tre delle sei elezioni politiche tenutesi dal 1994 al 2013 la maggioranza della Camera e quella del Senato non erano del tutto coincidenti. Nelle elezioni del 2013 questo contrasto è stato particolarmente netto, con la conseguenza che solo il ricorso ad una grande coalizione ha consentito la formazione di un governo sostenuto dalla fiducia di entrambe le Camere.

Nell’analisi del problema del bicameralismo, la Commissione è stata unanime nel proporre di superare il bicameralismo perfetto e paritario. Ciò potrebbe apparire ad alcuni ovvio, ma non lo è affatto, specie se si considera che ancora gli ultimi progetti di riforma costituzionale discussi nella legislatura precedente (come il c.d. “progetto Violante-Quagliariello”, discusso nel 2012) si muovevano nella prospettiva di differenziare le funzioni legislative delle due Camere, ma anche di mantenere il doppio voto di fiducia.

Tuttavia il consenso interno alla Commissione non si è esteso alla soluzione da adottare in alternativa al bicameralismo perfetto. Tre possibili soluzioni sono state prospettate al riguardo: a) quella di passare ad un sistema monocamerale; b) quella di un bicameralismo imperfetto con un Senato eletto a suffragio universale e diretto e c) quella di un Senato eletto indirettamente, al fine di dare rappresentanza in esso alle Regioni (intese non solo come territori ma anche come istituzioni) e, secondo alcuni, anche alle autonomie locali minori.

Anche la soluzione del Senato eletto indirettamente è differenziata in diverse sub-ipotesi: alcuni membri della Commissione desideravano un sistema il più possibile simile al Bundesrat tedesco, sia pure con alcuni adattamenti richiesti dalle specificità della situazione italiana; altri preferivano un assetto non dissimile dal Bundesrat austriaco.

La Commissione era inoltre divisa fra coloro che ritenevano che la “Camera delle autonomie” dovesse rappresentare solo le Regioni e coloro che proponevano una rappresentanza diretta nella seconda Camera anche delle autonomie locali.

La soluzione che è indicata come “prevalente” nella relazione finale è quella di un Senato eletto indirettamente in rappresentanza delle autonomie.

5. La riforma del Senato è stata in effetti concepita da molti membri della Commissione come un “completamento” della riforma del regionalismo (c.d. “riforma del titolo V”) approvata in Italia nel 2001. Secondo molti osservatori in tale riforma vi era un “anello mancante” che avrebbe dovuto congiungere un riparto di competenze ispirato al decentramento politico e legislativo con gli organi dell’apparato centrale di governo.

All’interno della Commissione, tuttavia, era presente una corrente di opinione – molto forte in Italia in questi ultimi anni – che ritiene che il regionalismo delineato dalla riforma del titolo V del 2001 sia ormai un “lusso” che un Paese in profonda crisi economica non può sostenere, almeno nelle forme attuali. Questa corrente di pensiero ritiene che esista un numero eccessivo di poteri di veto delle autonomie territoriali, che indebolisce la capacità del “sistema Italia” di decidere in maniera rapida ed efficace.

Dal punto di vista operativo, oltre a proporre di spostare alcune materie dal catalogo delle competenze “concorrenti” fra Stato e Regioni al catalogo delle competenze “esclusive” del legislatore statale, si è suggerito di introdurre nell’ordinamento italiano una clausola di supremazia, che consenta al legislatore statale di intervenire in tutte le materie di competenza legislativa regionale, al fine di tutelare l’unità giuridica ed economica del Paese. Ma mentre una parte della Commissione riteneva che tale meccanismo potesse essere attivato solo con il consenso di una seconda Camera eletta in rappresentanza delle Regioni (riprendendo per questo aspetto il modello germanico), secondo altri l’esigenza di un processo decisionale rapido dovrebbe consentire alla sola Camera politica di esercitare il potere unificante basato sulla clausola di supremazia.

Su altri due temi – le Regioni a statuto speciale e le Province – la Commissione ha discusso in vari momenti, esprimendo una pluralità di opinioni. Se è prevalsa l’idea che le Regioni speciali debbano essere mantenute, pur riducendone i privilegi fiscali, e che la previsione o meno delle Province debba essere lasciata all’autonomia regionale (mentre la Costituzione si dovrebbe limitare a stabilire standards minimi), su questi temi è forse mancata una lettura d’insieme all’interno della Commissione. La sua relazione, in questa parte, appare nel complesso deficitaria, sia dal punto di vista analitico che dal punto di vista propositivo: questa è la conseguenza della divisione interna alla Commissione fra un compatto fronte antiautonomista (che riteneva fosse necessario ridurre il potere delle Regioni e delle autonomie locali) e un fronte autonomista diviso al suo interno su diversi percorsi da utilizzare per rilanciare le autonomie in un’epoca di crisi economica sistemica.

6. Il tema della forma di governo era quello che, secondo l’opinione pubblica, aveva maggior rilievo nei lavori della Commissione. Era anche il tema su cui gli osservatori esterni ritenevano che la commissione si sarebbe “spaccata” in due gruppi quasi eguali: i sostenitori del regime parlamentare – da correggere in forma più o meno incisiva – ed i sostenitori di un cambiamento radicale nella tradizione costituzionale italiana, mediante l’introduzione di un sistema semipresienziale ispirato all’esperienza francese. Questa contrapposizione si è puntualmente verificata e nella seduta dell’8 luglio i membri della Commissione hanno discettato dottamente – con ampi riferimenti di diritto comparato e di storia costituzionale – sulle ragioni che avrebbero giustificato il mantenimento e la correzione del regime politico attuale dell’Italia e su quelle che, all’opposto, avrebbero consigliato una scelta semipresidenziale.

Mentre queste due ipotesi godevano nella Commissione di un consenso pressoché eguale, sia pure con una leggera prevalenza della prima, nella seduta del 15 luglio è gradualmente emersa una soluzione di compromesso, che è stata ritenuta accettabile dalla larga maggioranza dei membri della Commissione, sia pure come ipotesi subordinata a quelle inizialmente prescelte. Questa ipotesi di “compromesso” suggerisce di mantenere l’impianto parlamentare della forma di governo italiana, ma, al tempo stesso di intervenire su tre linee: a) il già citato superamento del bicameralismo perfetto; b) una riforma elettorale basata su un sistema a doppio turno su scala nazionale, che consenta di produrre una maggioranza a sostegno di un possibile governo (v. infra n. 8); c) il rafforzamento del Presidente del Consiglio, rispetto al Presidente della Repubblica (la decisione sullo scioglimento anticipato della Camera dovrebbe essere spostata dal Capo dello Stato al Capo dell’esecutivo), agli altri membri del governo (riconoscendo al Premier il potere di revocare i suoi ministri) e alle Camere (mediante una razionalizzazione della procedura parlamentare che consenta al governo di ottenere che i progetti di legge da esso ritenuti di maggiore importanza politica siano votati dal Parlamento entro una data prestabilita e mediante l’introduzione della mozione di sfiducia costruttiva, secondo il modello tedesco e spagnolo[1]).

7. La riforma elettorale è un capitolo assai rilevante del dibattito sulle riforme. Nella storia italiana è stato attraverso la riforma elettorale che si è tentato, all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, di chiudere il capitolo della democrazia proporzionalistica del secondo dopoguerra, con la finalità di superare alcuni limiti che avevano segnato, per vari decenni, il sistema politico ed istituzionale: la democrazia “bloccata” con impossibilità di alternanza al governo, la limitazione della scelta degli elettori al solo partito da essi preferito, ma senza poter scegliere la coalizione chiamata a governare ed il Presidente del Consiglio (che era designato mediante mediazioni partitiche), l’instabilità dell’esecutivo.

In seguito al referendum del 18 aprile 1993, in Italia venne introdotto un sistema elettorale misto, in cui tre quarti dei deputati e dei senatori erano eletti in collegi uninominali maggioritari a turno unico ed un quarto era eletto con un sistema proporzionale (in forme diverse alla Camera e al Senato). Questo sistema elettorale ha consentito la bipolarizzazione del sistema politico e la scelta popolare della coalizione di governo, assieme al suo leader. Esso ha anche aumentato la durata dei governi, ma non ha prodotto governi “di legislatura”, che durino da una elezione all’altra.

La riforma elettorale del 2005 – voluta a maggioranza dalla coalizione di centro-destra, allora al governo – ha modificato radicalmente il sistema elettorale del 1993, ritornando ad una competizione fra liste di partito in circoscrizioni plurinominali, con riparto proporzionale dei seggi, ma con due importanti correttivi: da un lato alcune soglie di sbarramento (al 3 per cento al Senato e al 4 per cento alla Camera), dall’altro un premio di maggioranza a favore del partito o della coalizione che ottenga il maggior numero di voti. Si tratta, dunque, di un sistema misto, con elementi proporzionali e maggioritari. Ma esso opera in maniera diversa nelle due Camere: mentre per la Camera dei deputati questo sistema consente al partito o coalizione che ottenga il maggior numero di voti su scala nazionale di conseguire il 54 per cento dei seggi, al Senato il premio opera nello stesso modo, ma su base regionale, con la conseguenza che, nei casi in cui non vi sia una netta differenza di voti fra la coalizione che ha ottenuto il maggior numero di voti e le altre, il rischio è che nessuna forza politica consegua la maggioranza.

La legge elettorale del 2005 ha goduto negli scorsi anni di una pessima reputazione nell’opinione pubblica italiana: e ciò non solo per le contraddizioni fra le due Camere che essa può produrre, ma anche per l’impossibilità per l’elettore di scegliere il singolo parlamentare mediante il voto di preferenza. Ciò presenta particolare gravità se si considera che la circoscrizione utilizzata per l’elezione della Camera coincide quasi sempre con la Regione (vi sono in tutto 27 circoscrizioni per 20 Regioni), con la conseguenza che le liste “bloccate” sono particolarmente lunghe e che l’elettore spesso non “riconosce” i candidati inseriti nelle liste. Per questo motivo è diffusa nell’opinione pubblica italiana l’impressione che la legge elettorale sia segnata da un grave deficit democratico. Essa, inoltre, è sospettata di illegittimità costituzionale per l’entità eccessiva del premio di maggioranza da essa previsto, che non è subordinato ad alcun livello minimo di consenso: e una questione di legittimità costituzionale relativa a tale legge è attualmente all’esame della Corte costituzionale.

8. Il lavoro della Commissione, riguardo alla legge elettorale, si è mosso a partire da due punti fermi: da un lato la necessità di superare il bicameralismo perfetto, con la conseguenza che l’importanza dei sistemi elettorali delle due Camere risulterebbe molto diversa da oggi. La vera questione – rilevante per il funzionamento della democrazia parlamentare – sarebbe quella del sistema di elezione della Camera, mentre per il Senato il problema sarebbe connesso alla funzione da riconoscere alla seconda Camera nel sistema costituzionale, ma non vi sarebbe più la necessità di una maggioranza nella seconda Camera come condizione per formare un governo.

Il secondo punto fermo è stata la ricerca di un sistema elettorale che fosse idoneo a ri-legittimare una classe politica in cui molti cittadini hanno perso fiducia, e al tempo stesso a produrre maggioranze stabili. La proposta “prevalente” della Commissione è stata quella di un sistema elettorale a doppio turno su base nazionale: nel primo turno elettorale gli elettori sceglierebbero fra le diverse liste di partito (eventualmente aggregate in coalizioni) e potrebbero inoltre votare per uno dei candidati inseriti nelle liste stesse; qualora nessun partito o coalizione di partiti ottenesse almeno la metà più uno dei seggi nel primo turno, i primi due partiti in termini di voti parteciperebbero ad un turno di ballottaggio nazionale, in virtù del quale al partito o coalizione più votata verrebbe attribuita la maggioranza dei seggi della Camera dei deputati.

Questo sistema elettorale dovrebbe assicurare la formazione di una maggioranza parlamentare come esito delle elezioni legislative. Verosimilmente, inoltre, essa rafforzerebbe i leaders dei partiti o delle coalizioni, i quali, soprattutto attraverso il secondo turno nazionale, sarebbero investiti di un mandato popolare, pur non essendo eletti a suffragio universale come titolari della carica di Presidente del Consiglio dei ministri.

9. Le proposte della Commissione, nella loro complessità ed articolazione (per la piena comprensione delle diverse ipotesi e varianti è necessario rinviare al testo della Relazione finale, che si può leggere in http://riformecostituzionali.gov.it/documenti-della-commissione/relazione-finale.html) sono ora all’esame delle forze politiche, alle quali competono ovviamente le scelte necessarie. La possibilità che una riforma costituzionale venga effettivamente realizzata è legata ad una situazione politica che continua ad essere assai precaria, anzitutto per l’eterogeneità della “grande coalizione” che governa l’Italia dal 28 aprile 2013 (e che anche di recente, all’inizio di ottobre, è stata sul punto di sgretolarsi).

Il lavoro compiuto sinora rappresenta comunque una novità circa il modo di affrontare il tema delle riforme costituzionali rispetto alla precedente storia italiana. La fase iniziale (pre-legislativa) del procedimento è stata affidata, in forma consultiva, ad un gruppo di esponenti del mondo accademico, designati ovviamente anche in base ai loro percorsi culturali, politici e scientifici, ma, soprattutto, scelti in quanto si attendeva da essi la capacità di far emergere linee di consenso e dissenso al di fuori della dialettica politica quotidiana. Non si è certo trattato di de-politicizzare il discorso sulla Costituzione, il quale, riguardando le regole di funzionamento della democrazia, incorpora in sé il massimo della “politica”. Si è piuttosto perseguito l’obiettivo di preparare la decisione politica – che spetterà ai parlamentari e ai leaders dei partiti – attraverso un confronto dialettico tra esperti, con qualche elemento di democrazia deliberativa. In questo, l’esperienza della Commissione sulle riforme qui riassunta era assai diverso dal Comitato Balladur, nominato dal Presidente francese Sarkozy con l’incarico di preparare la riforma costituzionale poi approvata nel 2008: mentre, infatti, il Comitato Balladur si muoveva sulla base di un chiaro mandato politico, aveva una composizione molto ristretta ed era politicamente omogeneo, la Commissione italiana doveva far emergere le diverse possibili soluzioni, era numericamente ampia (forse troppo ampia) ed era politicamente eterogenea.

Il risultato cui si è giunti per ora non è certo perfetto, ma potrebbe essere un punto di partenza utile, in quanto sintetizza sui principali temi oggetto di dibattito le soluzioni oggi ritenute più adeguate da uno spettro variegato ed eterogeneo di tecnici e studiosi.

Marco Olivetti

Professore ordinario di Diritto costituzionale nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Foggia, Italia. Nel 2013 è stato membro della Commissione sulle riforme costituzionali di cui si parla nella presente nota.


[1] L’esperienza costituzionale spagnola è stata considerata nella Commissione soprattutto riguardo alla disciplina del potere di scioglimento delle Camere alla mozione di sfiducia costruttiva e al sistema elettorale (quest’ultimo da tempo costituisce uno dei modelli cui una parte significativa della classe politica guarda come alternativa al sistema elettorale vigente in Italia).

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