La dichiarazione di inconstituzionalita’ della legge elettorale italiana ad opera della sentenza n.1 del 2014 della Corte costituzionale – Eduardo Gianfrancesco

Montecitorio, sede della Camera dei deputati - Wikipedia

1. Il 13 gennaio 2014 la Corte costituzionale ha depositato la sentenza con la quale ha dichiarato costituzionalmente illegittime alcune disposizioni della legge elettorale per la Camera dei Deputati ed il Senato della Repubblica. A partire dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione (n. 1 del 2014) in Gazzetta Ufficiale, che è avvenuta il 15 gennaio, il sistema elettorale italiano è notevolmente cambiato, in forza della pronuncia della Corte.Ciò che le forze politiche non erano riuscite a compiere in mesi di estenuanti trattative, alla fine si è verificato in forza di una pronuncia di illegittimità costituzionale. Come è facile intuire, l’intervento del Giudice costituzionale in materia elettorale è decisamente diverso, per presupposti, caratteri ed effetti da quelli di un legislatore. Di qui, una serie di problemi che si sono aperti in conseguenza della pronuncia della Corte e che stanno lacerando in questi giorni il dibattito politico italiano; problemi sui quali non ci si può soffermare in questa sede, se non per qualche accenno nelle righe seguenti.

E’ il caso di precisare che mai come in questo caso la lettura delle motivazioni della sentenza costituiscono un requisito indispensabile per comprendere: la portata dell’intervento della Corte; in cosa consista l’incostituzionalità della legge elettorale n. 270 del 2005 (nota al mondo con il poco simpatico appellativo di Porcellum, essendo stata definita da uno dei suoi “autori storici” una … porcata); quali vincoli si pongano ora al legislatore che voglia reintervenire in materia elettorale. Tra la data in cui la Corte aveva deciso (cfr. il comunicato stampa della Corte costituzionale del 4 dicembre 2013) e la data del deposito della sentenza con le sue motivazioni non era possibile andare molto al di là di mere congetture.

2. Il primo elemento che occorre sottolineare, specie per il lettore straniero, è che non era affatto scontato che la Corte potesse pronunciarsi nel merito della questione. Il sistema italiano di giustizia costituzionale, richiede, infatti, a pena di inammissibilità per le questioni di legittimità costituzionale sollevate da un Giudice nel corso di un giudizio (c.d. accesso in via incidentale), il requisito della rilevanza della questione, che implica connessione pregiudiziale ma anche distinzione tra ciò che si chiede (c.d. petitum) al Giudice e ciò su cui è chiamata a pronunciarsi la Corte costituzionale. Molto spesso in passato la Corte ha assunto un atteggiamento severo, sanzionando con l’inammissibilità della questione la coincidenza tra oggetto della domanda innanzi al Giudice a quo e questione di legittimità costituzionale portata all’esame della Corte (cfr., per questo orientamento, la sent. n. 38 del 2009). Si tratta, come è evidente, di un elemento di netta differenza rispetto al modello di giustizia costituzionale di altri Paesi, tra i quali la Spagna, che conoscono l’accesso diretto dei singoli (ovviamente a certe condizioni) al Tribunale costituzionale.

Ebbene, se si considera che la controversia dalla quale è scaturita la questione di legittimità costituzionale che ha condotto alla sentenza n. 1 del 2014 era stata avanzata da un cittadino-elettore che aveva percorso tutti i gradi di giudizio, sino alla Corte di Cassazione, lamentando che, in forza delle previsioni della legge n. 270 del 2005, il suo diritto di voto non aveva potuto e non può essere esercitato in modo libero e diretto, secondo le modalità previste e garantite dalla Costituzione e dal protocollo 1 della CEDU, e quindi chiedeva di ripristinarlo secondo modalità conformi alla legalità costituzionale, si può avanzare qualche dubbio sulla sussistenza della necessaria distinzione autonomia tra petitum del giudizio c.d. principale (quello innanzi al Giudice a quo) e questione di costituzionalità.

E’ difficile sottrarsi all’impressione, in altre parole, che ci si trovi di fronte all’azione giudiziaria di un elettore direttamente volta a far accertare l’incostituzionalità della legge elettorale in vigore che, alla stregua dell’orientamento tradizionale, difficilmente avrebbe superato il filtro del giudizio sulla rilevanza

La decisione di ammissibilità della Corte sembra fondarsi sulla peculiarità della materia elettorale ai fini del giudizio sulla rilevanza. In più di un passaggio, infatti, la decisione richiama la peculiarità di tale materia ed il rilievo costituzionale della stessa ai fini della decisione positiva sull’ammissibilità. La preoccupazione di creare una zona franca del sistema sembra avere avuto però come pendant la definizione di una zona speciale di valutazione della rilevanza per le questioni aventi ad oggetto la legislazione elettorale.

3. Nel merito la Corte costituzionale incide sulla disciplina relativa al premio di maggioranza per le elezioni della Camera dei Deputati e per il Senato della Repubblica (che, come vedremo, pongono problemi parzialmente diversi) ed il sistema di liste (lunghe) bloccate per l’elezione di deputati e senatori.

Per quanto riguarda la questione relativa al premio maggioranza, chi scrive ritiene che la dichiarazione di illegittimità costituzionale del sistema della legge n. 270 del 2005 sia pienamente condivisibile nelle sue motivazioni, anche se lascia alcune zone d’ombra sulle sue conseguenze, come si sta sperimentando nel dibattito politico italiano di questi giorni.

Apprezzabile appare l’indicazione dei due principi costituzionali che entrano in relazione dialettica nella configurazione del premio di maggioranza (e del sistema elettorale in generale): il principio di «rappresentanza politica nazionale» spettante alle assemblee parlamentari (nella Costituzione italiana ex art. 67 Cost.), che richiede rappresentatività delle assemblee medesime affinché il sottostante – ed ancora più fondamentale – principio di sovranità popolare (art. 1 Cost.) sia salvaguardato, da un lato, ed il “legittimo obiettivo di favorire la formazione di stabili maggioranze parlamentari e quindi di stabili governi”, secondo le parole della stessa Corte, che possiamo ricondurre all’art. 94 della Costituzione.

Il punto nodale e condivisibile della decisione della Corte che si impone d’ora in poi al legislatore italiano (sicuramente quello statale e forse anche a quelli regionali) è che una disciplina del premio di maggioranza senza soglia minima, quale era quella scrutinata dalla Corte, altera in modo non proporzionale (viene richiamato a questo proposito esplicitamente il test di proporzionalità spesso utilizzato dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea) la relazione dialettica tra i sopra richiamati principi, giungendo a determinare «un’alterazione del circuito democratico definito della Costituzione» ed, in ultima analisi, dell’eguaglianza del voto ex art. 48, comma 1, Cost).

L’ “ansia” di un premio di maggioranza majority assuring non può quindi arrivare a far sì che la lista o la coalizione che abbia ottenuto una maggioranza relativa, in ipotesi anche esigua, di voti consegua la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari. La Corte aveva già rivolto in un paio di occasioni dei moniti al legislatore perché intervenisse sul punto (sentt. 15 e 16 del 2008 e sent. n. 13 del 2012). Oggi il sistema politica sperimenta le conseguenze di aver lasciato inascoltati quei moniti…

La sentenza della Corte, sul punto, si lascia apprezzare perché guarda oltre le contingenze delle situazioni politiche del momento. Fino a qualche anno fa non pochi operatori politici ed anche qualche giurista ritenevano che la tendenza bipolare del sistema politico italiano avrebbe fatto sì che il gap tra le due coalizioni in sede di elezioni non sarebbe stato macroscopico e che quindi il premio di maggioranza senza soglia minima non avrebbe avuto applicazioni abnormi. Come è noto, la realtà è andata in una direzione abbastanza diversa ed in occasione delle elezioni del 2013 la ripartizione del voto degli elettori si è dispersa su di un’offerta elettorale più che bipolare (si pensi all’affermazione del Movimento 5stelle). Si consideri che alla Camera dei Deputati la coalizione di centro-sinistra – che ha poi usufruito del premio di maggioranza del 55 % dei seggi – ha ottenuto il 29,6 % dei voti. Il rischio di applicazioni abnormi del premio suddetto è quindi reale.

Dichiarando incostituzionale la previsione del premio di maggioranza senza soglia minima, la Corte costituzionale non impedisce al sistema elettorale di funzionare. L’operatività sempre e comunque del sistema elettorale, tale per cui l’elezione di nuove Camere deve essere sempre possibile – trattandosi di leggi “costituzionalmente necessarie” ancorché non “a contenuto costituzionalmente vincolato” – costituisce un leit-motiv della giurisprudenza della Corte in materia elettorale (enunciato soprattutto in occasione delle richieste di referendum abrogativo: cfr., da ultima la sent. n. 13 del 2012).

Nella situazione successiva alla sentenza n. 1 del 2014, il sistema elettorale che residua è il sistema della legge n. 270 del 2005 privato del premio di maggioranza, ovvero un sistema elettorale essenzialmente proporzionale, con l’unico blando correttivo delle deboli clausole di sbarramento al riparto dei seggi in esso previste.

L’obiezione che la Corte, così agendo, ha modificato il sistema elettorale ed il comportamento degli attori politici in esso operanti può avere un fondamento dal punto di vista politologico, ma appare debole da un punto di vista giuridico: La Corte non ha certo inteso scegliere tra un sistema elettorale ed un altro, né ha prescritto il proporzionale debolmente corretto prodotto dalla sentenza di incostituzionalità come sistema da adottarsi necessariamente per il futuro da parte del legislatore. La sua unica preoccupazione è stata eliminare le previsioni incostituzionali (premio di maggioranza senza soglia minima), avendo cura che un sistema elettorale autosufficiente e costituzionalmente legittimo (non obbligato, si ribadisce) comunque ci sia. A questo punto, eliminate le previsioni sul premio di maggioranza, il sistema che residua è quello appena descritto ed è scelta discrezionale del legislatore discostarsi da esso, purché nel rispetto dei vincoli costituzionali, compresi ovviamente anche quelli posti dalla sentenza che qui si commenta.

La considerazione che una serie di forze politiche traggono vantaggio dal sistema proporzionale debolmente corretto prodotto dalla sentenza della Corte e che quindi tali forze si porranno di traverso rispetto ad eventuali interventi del legislatore, ponendo ostacoli tanto più ingombranti quanto più ci si volesse allontanare dal modello proporzionale, è comprensibile e fondata dal punto di vista politologico, ma non sposta i termini della questione dal punto di vista del diritto costituzionale.

Certo non sfugge che la pronuncia della Corte lascia, ragionando in termini di diritto costituzionale, una zona grigia interpretativa: se non è incostituzionale il premio di maggioranza in sé, ma l’assenza di soglia minima per la sua operatività, dove si colloca tale soglia minima ? La Corte non lo dice e questo è abbastanza comprensibile, non solo per ragioni di strategia giurisprudenziale (riservarsi spazi di valutazione per il futuro) e poiché la “dettatura” della soglia minima avrebbe reso ancora meno digeribile la pronuncia per le forze politiche italiane. Bisogna riconoscere, infatti, che una predeterminazione astratta non è probabilmente possibile, tenuto conto che tale soglia risente di variabili esterne quali la presenza o meno e l’entità di clausole di sbarramento e l’ampiezza (ovvero la soglia massima) del premio di maggioranza previsto.

Ciò detto il problema politico-costituzionale resta ed è su questo tema che si sono innestate in Italia vivaci controversie politiche ed anche giuridiche in queste settimane.

4. Non si può non provare qualche imbarazzo a rammentare agli osservatori stranieri il sistema elettorale per il Senato previsto dalla legge n. 270 del 2005 e dichiarato incostituzionale anch’esso per la mancata previsione di una soglia minima all’operatività del premio di maggioranza.

Si tratta, infatti, di uno di quei casi in cui l’ingegno italico ha dato di sé una prova perversa, prevedendo una serie distinta di premi operanti, l’uno autonomamente dall’altro, per le singole circoscrizioni coincidenti con i territori delle Regioni italiane.

Solo un fraintendimento del significato e del vincolo dell’art. 57, comma 1, della Costituzione (“Il Senato è eletto a base regionale”) ha indotto il legislatore del 2005 ad estendere la regola di ripartizione dei seggi su base regionale anche al premio di maggioranza, che opera, invece, sulla base di un’altra logica, che è quella del consolidamento della maggioranza di governo che è ovviamente unitaria sul territorio nazionale e non può essere frantumata su base regionale.

Riprendendo la relazione dialettica tra esigenze dell’art. 67 Cost. ed art 94 Cost., è (rectius: avrebbe dovuto essere) chiaro che la distribuzione base dei seggi è informata al primo principio, secondo le previsioni specifiche (peraltro non particolarmente perspicue) dell’art. 57 Cost. per il Senato, mentre il premio di maggioranza, senza contraddire l’ispirazione dell’art. 67 Cost., è riconducibile al secondo principio, il quale, come si è appena sottolineato, opera in una prospettiva unitaria.

Come rileva sostanzialmente la Corte, la disciplina della legge n. 270 del 2005 è doppiamente incostituzionale: per la mancanza di proporzionalità insita nell’assenza di soglia minima del premio e per la irragionevolezza di premi su base regionale, potendo essi elidersi a vicenda, con l’effetto che “la maggioranza in seno all’assemblea del Senato sia il risultato causale di una somma di premi regionali, che può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale”.

5. L’ultima dichiarazione di incostituzionalità contenuta nella sent. n. 1 del 2014 riguarda il sistema delle lunghe liste bloccate per l’individuazione degli eletti ad opera della legge n. 270 del 2005; liste talmente lunghe che esse non venivano riportate sulle schede (ma al più nei manifesti ufficiali predisposti dal Ministero dell’Interno affissi nelle sezioni elettorali di voto).

L’elezione del singolo candidato dipendeva, quindi, dal numero dei seggi assegnato alla lista e dalla posizione del candidato nella lista stessa, deciso evidentemente dal partito. In realtà, il quadro era ulteriormente complicato dalla possibilità di pluri-candidature in circoscrizioni elettorali diverse e, quindi, dallo “scorrimento” delle liste degli eletti, in conseguenza delle opzioni in caso di pluri-elezione dello stesso candidato.

La sentenza della Corte si muove su di un crinale abbastanza delicato in questa materia, se si considera che il sistema delle liste bloccate – ancorché corto e questa è la differenza fondamentale – è utilizzato anche in altri ordinamenti, come il lettore spagnolo sa bene.

Si noti che la sentenza non si è limitata ad un intervento minimale ovvero quello di introduzione del divieto di candidature multiple (e del successivo gioco delle opzioni); intervento che avrebbe già reso molto più trasparente il sistema di selezione degli eletti nella competizione elettorale. Il Giudice di costituzionalità delle leggi ha invece affrontato “di petto” il tema delle liste bloccate, addentrandosi in una materia decisamente impervia.

La riprova delle difficoltà di orientamento in questo ambito è percepibile nella lettura della sentenza che manifesta, secondo chi scrive, delle oscillazioni argomentative sulle ragioni dell’incostituzionalità del sistema delle “liste lunghe bloccate”. In alcuni passaggi, infatti, la Corte sembra fondare la propria censura sull’assenza di ogni “margine di scelta” dei propri rappresentanti in capo all’elettore, con un’affermazione sin troppo impegnativa che sembra porre un’ipoteca di incostituzionalità persino sui sistemi dei collegi uninominali che tale margine di scelta (tra candidati della stessa lista) non consentono.

A compensare e correggere l’idea che l’unico sistema costituzionalmente compatibile di selezione dei parlamentari da parte degli elettori sia quello delle preferenze (che porrebbe l’Italia in una posizione singolare nel diritto comparato), altri passaggi della decisione fanno invece riferimento all’esigenza di “effettiva conoscibilità” dei candidati da parte degli elettori, recuperando così al ventaglio delle opzioni costituzionalmente legittime i sistemi a liste bloccate con esiguo numero di candidato ed i collegi uninominali.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte dichiara incostituzionale il sistema delle “liste “lunghe bloccate”, in quanto in grado di coartare la libertà di scelta degli elettori e, quindi, in ultima analisi di ledere il principio democratico.

L’oscillazione argomentativa alla quale si accennava sembra tornare nell’esito della dichiarazione di incostituzionalità: la Corte, infatti, non individua essa stessa la soglia numerica di candidati in grado di soddisfare il requisito della “effettiva conoscibilità” né formula indicazioni di principio a tal fine, ma impone una diversa soluzione, imponendo la possibilità di espressione di una preferenza da parte dell’elettore sulla scheda. Non ci si può sottrarre all’impressione che questa non era l’unica opzione a disposizione della Corte e che prima della trasformazione di un sistema a liste bloccate, incostituzionale perché troppo lunghe, in un sistema a voto di preferenza, si presentava come soluzione logicamente precedente – perché ancora interna al sistema prescelto dal legislatore (si ribadisce in sé non incostituzionale) – la riduzione della lunghezza delle liste.

In questo caso, sembra difficile sottrarsi all’impressione che la Corte abbia “scelto” una soluzione rispetto ad un’altra, sorvolando sulle difficoltà applicative della sua pronuncia che costringerà a modificare profondamente le schede elettorali, con interventi normativi secondari un pò più impegnativi di quelli “meramente tecnici e secondari” ai quali la sentenza fa riferimento.

Per completezza di informazione nei confronti del lettore straniero, è appena il caso di ricordare che anche su questo profilo di selezione degli eletti da parte degli elettori, il dibattito politico sul seguito della sentenza appare al momento attuale accesissimo, poiché sul tema del mantenimento della preferenza reintrodotta dalla Corte o sulla conferma di un sistema di liste bloccate, ancorché corte, si registrano sensibilità molto diverse tra i partiti politici italiani e nei partiti stessi…

6. Un’ultima considerazione a proposito della precisazione che la Corte è stata costretta a compiere sulla delimitazione degli effetti della propria pronuncia di incostituzionalità.

A fronte di scomposte polemiche politiche sull’asserita illegittimità del Parlamento eletto sulla base della legge n. 270 del 2005 (e, coerentemente, si sarebbe dovuto aggiungere, di quelli precedenti eletti nel 2006 e nel 2008 sulla base della stessa legge, nonché di tutte le leggi e gli atti da questi approvati e di tutti gli organi eletti od approvati sulla base di votazioni parlamentari in questo arco temporale….), la Corte ha sentito l’esigenza di ribadire il principio secondo cui gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità investono i soli rapporti “pendenti” con esclusione di quelli ormai definitivi. Nel caso di specie, la proclamazione degli eletti consolida definitivamente la legittimità dell’organo-Parlamento nella presente XVII Legislatura repubblicana (ed in quelle che l’hanno preceduta).

Segue un’affermazione perentoria sulla portata del principio fondamentale di continuità dello Stato per cui le “Camere sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare”.

Sarà uno scrupolo professorale, ma, forse, una minima relativizzazione dell’affermazione, con riferimento ad ipotesi di vizi gravissimi ed insanabili relativi alla costituzione dell’organo (si pensi ad elezioni radicalmente viziate per violenza o minaccia), magari distinguendo la categoria dell’atto invalido da quella dell’atto radicalmente nullo, non avrebbe tolto nulla alla soluzione del caso di specie (che sicuramente non rientra in tale ipotesi) ma sarebbe rimasta come affermazione e monito di principio.

Eduardo Gianfrancesco
Ordinario di Diritto costituzionale – Dipartimento di Giurisprudenza di Roma, Università Lumsa

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