Il Senato delle autonomie nella proposta di riforma della Costituzione italiana presentata dal Governo – Elisabetta Catelani

Il tema delle riforme costituzionali è al centro del dibattito politico da almeno un anno, ossia da quando il Presidente della Repubblica dinanzi ad una crisi politico-istituzionale senza precedenti anche a causa di un risultato elettorale di ingovernabilità (la coalizione di centro-sinistra aveva la maggioranza alla Camera dei Deputati, ma non al Senato a causa di una legge elettorale con premi di maggioranza diversificati per le due Camere), nominò una Commissione di dieci “saggi”, al fine di formulare precise proposte programmatiche sia sugli aspetti economici, che su quelle istituzionali e di riforma costituzionale.

La crisi, superata con la rielezione di Giorgio Napolitano a Presidente della Repubblica (nessun Presidente della Repubblica era mai stato eletto due volte dal 1948 ad oggi) e con la creazione di un governo di “grande” coalizione fra partiti di centro-destra e di centro-sinistra presieduto da Enrico Letta, portò alla successiva nomina della Commissione per le riforme istituzionali (formata da tecnici – per lo più professori universitari di diritto costituzionale, ma anche economisti, storici e politologi), che ha elaborato uno studio e specifiche proposte di riforma di una parte significativa della seconda parte della Costituzione.

I risultati elaborati dalla Commissione sono stati in parte recepiti nella proposta di revisione costituzionale ora presentata dal Governo Renzi (AS 1429), che prevede la riforma del Senato e delle norme che disciplinano i rapporti fra Stato e comunità locali (Titolo V della Costituzione). Tale disegno di legge costituzionale è stato oggetto di molte critiche, anche da parte della dottrina costituzionalista, e ha determinato la presentazione di altri disegni di legge costituzionale firmati da esponenti della stessa maggioranza a sostegno del governo: due provenienti dallo stesso partito del Presidente del Consiglio (A.C. 2227 di G. Civati e S. 1420 di V. Chiti) ed uno firmato dall’ex Presidente del Consiglio Monti (S. 1416), che ha fondato il partito Scelta civica (negli ultimi giorni sono stati presentati altri disegni di legge costituzionale di deputati o senatori non appartenenti alla maggioranza, che ovviamente in fase di analisi parlamentare saranno oggetto di valutazione).

L’aspetto sicuramente più importante contenuto nei vari progetti di riforma è rappresentato dalla sostanziale modifica del procedimento di nomina e del ruolo del Senato.

La base di partenza, la ratio del tentativo di innovazione è rappresentata dalla constatazione che il bicameralismo, così come disegnato dall’Assemblea costituente nel 1947 (e ancor più, come è emerso con la prima riforma costituzionale del 1963, che ha unificato i tempi di durata delle due Camere), non ha più ragion d’essere, per una serie di ragioni, non ultima la semplice constatazione che due Camere con medesimi poteri allungano i tempi di decisione del Parlamento, rendendolo sempre più dipendente dalle decisioni e dall’attività normativa del Governo, che ormai da tempo ha assunto una posizione principale nella funzione legislativa.

A questo si accompagna la constatazione, (ed anzi spesso è visto come il motivo principale della necessità delle riforme), che due Camere ed in particolare un numero così significativo di parlamentari, costituiscono un dispendio economico per lo Stato non giustificato né giustificabile in una fase di crisi economica come quella attuale. In realtà questo costituisce sicuramente un falso problema, in quanto la crisi economica italiana non può certo essere risolta attraverso l’eliminazione o comunque la riduzione delle spese di gestione del Senato, ma il tema delle spese per la politica è percepito negativamente a causa della crisi identitaria che i partiti stanno vivendo in questo periodo. Crisi della politica che riverbera i suoi effetti più in generale sulla stessa democrazia, come se i due elementi fossero intimamente legati come due facce della stessa medaglia.

Infine si deve aggiungere che la differenziazione, anche se modesta, del sistema elettorale ha, di fatto, determinato problemi consistenti nella formazione e nell’opera unitaria di governo (maggioranze strabiche che hanno trasformato il Senato da inutile in dannoso).

Da tutto ciò ne consegue che al Senato deve essere sottratto il potere di votare la fiducia del Governo, che rimane nel potere della Camera dei Deputati. Unica Camera a cui sono affidate le scelte di indirizzo politico. Tutti i disegni di riforma costituzionale sono concordi sulla necessità di attribuire il voto di fiducia solo alla Camera dei Deputati.

Diversità di opinioni e di proposte vi sono in ordine al modo in cui occorre trasformare il Senato: se il Senato deve essere rappresentativo dei cittadini in modo diretto con elezioni coincidenti con il rinnovo delle rappresentanze regionali, ovvero rappresentanza indiretta con nomina fatta dai consigli regionali o dagli altri enti territoriali o ancora con rappresentanti di diritto in quanto Presidenti di regione o Sindaci delle città capoluogo di regione o delle future Città metropolitane.

Nel momento in cui si sottrae il voto di fiducia al Senato, si ritiene logico e conseguente escludere anche una rappresentatività diretta dei senatori, cosicché la proposta del Governo, attualmente, prevede un Senato con rappresentanza solo indiretta, ma anche molto diversificata: in particolare 21 Presidenti di regione e delle Province autonome di Trento e Bolzano, 21 Sindaci dei comuni capoluogo di regione, 40 rappresentanti delle Regioni e 40 rappresentanti dei Comuni, ed infine 21 cittadini che hanno “illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” nominati al Presidente della Repubblica per sette anni.

Si tratta di una proposta che ha una sua struttura di base da apprezzare, con alcuni dubbi da mettere in evidenza.

Sicuramente occorre valutare positivamente la scelta di un Senato con rappresentanza solo indiretta. Le esperienze straniere, a questo riguardo, possono essere particolarmente utili per comprendere gli aspetti positivi e negativi di una determinata soluzione, anche se occorre sempre tener conto delle peculiarità del nostro ordinamento e della storia che è alla base dell’evoluzione e dei problemi della nostra forma di Stato e di governo. L’esperienza fallimentare spagnola e belga, che prevede una composizione del Senato in parte espressione di elezione diretta da parte dei cittadini ed in parte indiretta di nomina locale, deve far meditare coloro che ipotizzano una rappresentanza mista all’interno del Senato (proposta Civati AC 2227). In Spagna da tempo si discute sulla bontà del modello prescelto, ma i particolari freni che vi sono anche nell’ordinamento spagnolo ad ipotizzare una riforma costituzionale, impediscono di superare il modello misto nella composizione della seconda Camera. In Belgio poi è in atto un ampio processo di riforma costituzionale, attivato dopo le complesse elezioni politiche del 2010 che hanno portato alla nomina di un Comitato (Comori) che è giunto ad una specifica intesa (4 maggio 2012) proprio sulla modifica del Senato che sarà completamente rappresentativo (in modo indiretto) delle comunità federate. La discussione che si sta facendo in Belgio per giungere ad una riforma costituzionale può essere particolarmente utile anche con riguardo alla riforma costituzionale italiana, per i caratteri comuni presenti in entrambi gli Stati da un punto di vista istituzionale: dall’instabilità politica dovuta anche alla proliferazione dei partiti, alla necessità di avere una seconda Camera più efficiente e che favorisca la pacificazione fra le varie comunità locali.

Viceversa il disegno di riforma costituzionale del governo non convince con riguardo alla rappresentanza paritaria prevista sia fra le Regioni, sia nel rapporto rappresentanza regionale-rappresentanza locale. In altre parole, non pare ragionevole, con riguardo alla forma di Stato presente in Italia che regioni molto piccole, con un numero di abitanti estremamente ridotto quali la Valle d’Aosta o il Molise (poco più di 100.000 abitanti la prima e 300 mila la seconda), abbiano la stessa rappresentatività di Regioni quali la Lombardia o la Campania (10 milioni la prima e 6 milioni la seconda).

Una rappresentanza paritaria fra regioni si potrebbe giustificare se ci si volesse indirizzare verso una forma di Stato federale, come gli USA, in quanto la cessione di sovranità dei singoli Stati o soggetti autonomi si potrebbe giustificare nella possibilità di poter incidere in modo paritario sulle decisioni dello Stato federale. In Italia tuttavia non vi sono i presupposti istituzionali per un cambiamento verso una forma di Stato federale, ma anzi tutto il progetto di riforma e la discussione che viene fatta anche in dottrina, non è certo indirizzata ad un incremento delle competenze regionali, al punto da configurare forme federali, ma anzi l’esatto contrario, ossia quello di tendere a centralizzare poteri che con la modifica del titolo V (1999-2001) erano stati attribuiti alle Regioni (si pensi al tema delle grandi reti di trasporto e di navigazione o alla produzione, trasporto e distribuzione dell’energia). Tale tendenza a centralizzare alcuni poteri che viene accettata anche negli altri disegni di legge costituzionale, conferma la necessità di mantenere le caratteristiche essenziali di uno Stato regionale. L’autonomia che deve e può essere garantita alle Regioni non può determinare, come conseguenza, da un lato la parificazione delle varie Regioni da un punto di vista rappresentativo e dall’altro che il Senato sia espressione soltanto degli organi o delle autonomie regionali, ma anche degli enti che in vario modo svolgono attività amministrativa sul territorio. Pertanto, una rappresentanza paritaria delle Regioni potrebbe essere giustificata solo se ci si indirizzasse verso uno Stato federale, tenendo tuttavia conto che, per lo più, anche negli Stati federali la rappresentanza degli enti autonomi (che si chiamino Länder, Stati o Cantoni) spesso non è completamente paritaria, ma connessa alla popolazione presente nel territorio.

La soluzione più ragionevole, pertanto, dovrebbe essere quella di differenziare anche in modo considerevole le rappresentanze sia regionali che locali dei vari territori, in proporzione alla popolazione presente.

Una soluzione semplice, ma non pienamente garantista potrebbe essere quella di suddividere le regioni in tre gruppi (fino a un milione di abitanti, da uno a tre milioni, oltre tre) in modo da assicurare un numero di seggi parzialmente diversificato che tenga conto delle rispettive differenze, secondo il modello Bundesrat.

La soluzione ottimale sarebbe invece quella di mantenere una rappresentanza pienamente proporzionale ai cittadini presenti nel territorio.

L’ulteriore aspetto che consegue dal mantenimento di uno Stato regionale è anche quello della necessità di rappresentare adeguatamente nel Senato anche le comunità locali, che hanno caratteristiche, interessi e finalità diverse da quelle regionali. Pertanto è essenziale, come previsto nel disegno di legge del governo un’adeguata rappresentanza dei Sindaci, in quanto l’ente comunale ha una tradizione millenaria nel nostro ordinamento ed una rilevanza nello svolgimento delle attività amministrative primarie che non può essere dimenticata, ma anzi valorizzata e affiancata alla rappresentanza regionale. Non a caso dopo che fu istituita la Conferenza Stato-Regioni, si percepì l’importanza della creazione della Conferenza Stato-Città e successivamente della Conferenza unificata.

Ma ha senso che la rappresentanza regionale e quella locale siano parificate all’interno del Senato?

A tale riguardo occorre tener conto che nel progetto di riforma il Senato viene visto innanzitutto come il luogo per dirimere i conflitti di competenza legislativa fra Stato e Regioni. Se questo è l’obiettivo principale, la rappresentanza regionale all’interno del Senato non può essere paritaria con quella dei Comuni e delle Città metropolitane o addirittura inferiore come risulta dal disegno di legge del governo che prevede un’ulteriore componente di nomina del Presidente della Repubblica (che comunque poco convince come si dirà subito dopo). Infatti, i Comuni sono in genere rappresentativi di interessi diversi, più particolari e sicuramente non coincidenti con gli interessi regionali, cosicché, se non si può escludere (ma anzi valorizzare) la presenza di una rappresentanza locale, questa deve essere più ridotta. D’altra parte l’autonomia legislativa è competenza della Regione, non dei Comuni. Una soluzione ragionevole potrebbe essere quindi di ipotizzare un terzo di rappresentanti dei Comuni o delle comunità locali e due terzi di rappresentanti regionali. Tutto ciò tenendo conto che comunque la rappresentanza sarà diversa fra le regioni come indicato al numero precedente, cosicché, per esemplificare, il numero di Sindaci presenti per regioni grandi come la Lombardia sarà in ogni caso superiore a quelli per il Molise.

Un’ultima considerazione sull’opportunità di eliminare i senatori a vita di nomina del Presidente della Repubblica e limitare la loro presenza in Senato ai soli ex Presidenti della Repubblica a titolo di onorificienza per l’attività svolta per lo Stato. La rappresentanza della società civile, viceversa, non ha senso logico in un Senato che deve definire e conciliare i diversi interessi Centro/periferia. Se è un Senato delle Autonomie vi deve esser un collegamento con i rispettivi obiettivi e valori, non potendo unificare in uno stesso organo interessi e problematiche diverse.

Elisabetta Catelani

Professore ordinario presso il Dipartimento di Giurisprudenza Università di Pisa

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